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Riformismo o trasformismo?

Riformismo o trasformismo?

Ogni tanto viene fuori qualcuno che cerca di aggettivare parole che hanno un significato storico di un certo peso con l’intento di renderle più incisive, penetranti e radicali. Diversi anni fa, Achille Occhetto, ultimo segretario del PCI e primo del PDS, inventò il termine di “democrazia incontentabile”.

Pensò così, allo scopo di dare forza alla “discontinuità” con la storia precedente, di superare la più classica e togliattiana espressione di “democrazia progressiva” che aveva accompagnato la lotta dei comunisti italiani durante tutti i quarantacinque anni della prima Repubblica. L’obiettivo era anche quello di rendere il termine “democrazia” più radicale, nel momento in cui, dall’altra parte, si sdoganava la parola “riformismo” – bestia nera dei comunisti da Lenin in poi, e prima ancora dei massimalisti socialisti – come postulato dell’agire della sinistra postcomunista. Il termine “incontentabile” non accontentò nessuno e, come tutto il resto dell’opera occhettiana, non ebbe molta fortuna; fu presto dimenticato.

In precedenza, nel “secolo breve” del novecento, il termine democrazia era stato oggetto, in Italia da parte di qualcuno, della curiosa ma penetrante aggettivazione di “progrediente” all’epoca del riformismo giolittiano (nella foto Giovanni Giolitti). La cosa fu immortalata in una epigrafe sopra un mobile che raccoglieva in diversi volumi centinaia di migliaia di firme che, nel 1914, vollero omaggiare in Piemonte lo statista di Dronero per la sua “fiducia nella democrazia progrediente” per l’appunto.

Poi la parola “democrazia”, entrata per forza di cose nelle menti comuniste durante la lunga battaglia antifascista – menti fino allora soggiogate dal mito “dittatura del proletariato” tramite i soviet espressione della “democrazia proletaria” – fu aggettivata da quest’ultimi, per non confonderla con la “democrazia borghese” di cui si continuava a dire peste e corna, come “democrazia popolare”. Era il modo trovato da Dimitrov, e accettato provvisoriamente da Stalin, per definire regimi in cui i partiti comunisti operavano insieme a forze borghesi nei paesi che l’Armata rossa aveva liberato dai nazisti all’indomani della vittoria nella seconda guerra mondiale. La “democrazia popolare” nell’est Europa ebbe vita breve, l’avvento della “guerra fredda” la mise alla porta e la democrazia divenne socialista ma senza libertà e, a veder bene, anche senza la democrazia.

In Italia in quest’ultimo quarto di secolo la parola che ha dominato nell’autodefinizione dei partiti è stata “riformismo”. Come già detto, nella sinistra postcomunista fu sdoganata dopo lo scioglimento del PCI. Nel nostro paese, ma non solo, il “riformismo” aveva storicamente contraddistinto una tendenza interna al movimento socialista in contrapposizione a quella massimalista e rivoluzionaria. Tutta la vita del Partito socialista fu, dall’inizio, dominata da questa diatriba. Il termine non distingueva una diversità di fini ma, più che altro, una diversità di mezzi per raggiungere lo stesso scopo: il socialismo. La tendenza riformista non era maggioritaria tra i militanti del partito, lo era invece a livello elettorale e sindacale nella Confederazione generale del lavoro (Cgl). I riformisti socialisti erano stati quelli più dediti all’organizzazione concreta delle masse lavoratrici e delle loro lotte. Soprattutto nelle regioni centrali dell’Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, segnate dal bracciantato agricolo e dai contratti agrari di origine semifeudale come la mezzadria e la colonìa.  Ancora nelle elezioni truffaldine del 1924, con il fascismo al potere da due anni, il PSU, partito socialista unitario capeggiato dai riformisti di Turati, Treves e Matteotti (nella foto), scissosi dal PSI due anni prima – dopo i comunisti che se n’erano già andati nel ’21 – risultò ottenere consensi maggiori della casa madre.

Dopo la guerra, come si è detto, il termine “riformista”, come quello di “socialdemocratico” a esso connesso, continuò a non avere a sinistra un grande successo. Anzi, per la verità, veniva ideologicamente assolutamente aborrito, anche perché qui da noi a rappresentarlo era il partito fondato da  Giuseppe Saragat la cui notevole personalità di socialista italiano, insieme a quelle di Luigi Romita, Guido Mondolfo e Mario Zagari, non riuscì a nascondere la successiva e prevalente pochezza di gran parte del personale politico del PSDI: da Mario Tanassi a Pietro Longo, da Franco Nicolazzi a Antonio Cariglia ecc.

I comunisti, invece, avendo decisamente imboccato la via della “democrazia progressiva” non potevano non imboccare anche quella delle riforme e quindi del riformismo; quello emiliano lo avevano già sussunto praticamente fin da subito. Pensarono bene, per mantenere un certo contegno rivoluzionario, di specificare il termine “riforme” aggiungendo “di struttura” per distinguerle da quelle esangui e traditrici del riformismo. Volevano dire che i cambiamenti riformatori dovevano riguardare le fondamenta della società e dei rapporti di proprietà e di produzione e non solo le sovrastrutture amministrative. Era la traduzione ideologica di una cosa molto semplice: la differenza fra un riformismo “forte” e radicale e un riformismo più contenuto e debole ma che, all’atto pratico, ebbero ambedue modo di incontrarsi e produrre conquiste sociali e civili notevoli nella lunga stagione del primo “centro-sinistra”; quello di Moro, Nenni, Fanfani de Martino ecc.

A fare da propellente a questo “riformismo forte” che assorbì quello “debole”, furono le lotte sindacali e politiche accompagnate da mobilitazioni di massa messe in campo unitariamente dalla sinistra, soprattutto sotto la spinta di quella comunista che avendo preclusa la via del governo per la cosiddetta conventio ad excludendum (cioè: accordo esplicito o una tacita intesa tra alcune parti sociali, economiche o politiche, che abbia come fine l’esclusione di una determinata parte terza da certe forme di alleanza, partecipazione o collaborazione), doveva per forza di cose, e anche di intimi convincimenti dottrinali, affidarvisi per influire nelle decisioni degli esecutivi imperniati sulla DC. Fu l’epoca in cui il “riformismo” non fu dall’alto e non fu senza popolo, perché, con le sue lotte, avanzò sulle gambe di milioni di uomini e di donne producendo non soltanto leggi e conquiste materiali ma anche immateriali, forse le più proficue, perché si radicarono nella coscienza civile di tante persone, segnandone un avanzamento intellettuale e morale.

Poi con la seconda Repubblica e con i nuovi e cangianti partiti che la popolarono tutto cambiò. Il riformismo divenne la divisa di tutti, persino di Berlusconi e del berlusconismo, a destra e a sinistra, sinonimo di bon ton, di politically correct e di buona educazione politica. Il termine divenne bulimico e assurse a ipostasi filosofica perdendo ogni concreto significato originale progressista e ogni riferimento alla concreta realtà. Ogni controriforma sociale, soprattutto quelle a danno dei lavoratori, fu mascherata col termine di riformismo. Accadde, curiosamente, che quando il nobile termine era teoricamente aborrito nella sinistra a maggioranza comunista, la “democrazia progressiva” e le conseguenti riforme ebbero corso e successo tanto da spingere Enrico Berlinguer, a metà degli anni ’70, a parlare di esse come “elementi di socialismo”. Mentre quando nella seconda Repubblica il riformismo fu la divisa di tutti, le riforme divennero sinonimo di arretramenti sociali che accompagnarono un processo di democrazia “regrediente” sempre meno connessa con le forze popolari e sempre più concretamente “borghese” nella sua rappresentanza politica e istituzionale. Anche il bon ton “riformista” iniziale deperì rapidamente e fu sostituito dal linguaggio da caserma, per non parlare dell’etica politica divenuta merce rara e quasi introvabile anche a sinistra.

Nella seconda Repubblica pure il nobile temine di “riformismo” ha incamerato la sua massiccia dose di trasformismo. Da arma esplicita o implicita della sinistra e delle classi lavoratrici e popolari, è divenuto nel “trentennio inglorioso” strumento di fatto delle classi possidenti e dominanti: la borghesia finanziaria e gli apologeti della mano salvifica del mercato, del privato superiore al pubblico se, ovviamente, liberato da lacci e lacciuoli creati dal riformismo d’antan. I nuovi eroi del “riformismo-trasformismo” sono stati gli imprenditori finanziari e quelli industriali dediti alle delocalizzazioni delle aziende per rincorrere il basso costo del lavoro, gli speculatori di ogni ordine e risma, accompagnati da uno stuolo di tecnici e di politici dediti a “riformare”, cioè a demolire per conto di lor signori, le leggi protettive del lavoro. Dediti a inventare “riformisticamente” sempre nuovi strumenti e forme contrattuali tali da assoggettare il tempo di lavoro dei lavoratori alle ore e ai minuti della prestazione viva, riportando tendenzialmente la forza lavoro alle origini del nascente capitalismo industriale, quando era pura merce, separata dall’uomo che la conteneva e sempre più scissa dalla sua umanità. Tra gli incoraggiamenti, le acclamazioni, le invocazioni e le giustificazioni “moderniste” di uno stuolo di intellettuali e gazzettieri del capitale.

Il risultato obiettivo è stato che più dilagava il “riformismo” a parole e più aumentavano le diseguaglianze sociali. Più aumentava il numero delle persone che entravano nelle fasce della povertà, più diminuivano i redditi dei lavoratori dipendenti, più s’impoveriva il ceto medio, più si riduceva lo stato sociale, più degradava l’etica della classe politica e, in generale, di quella dominante, più la parola “riformismo” trionfava nel lessico di quasi tutti i partiti a testimoniare il suo ribaltamento di senso.

Ultimo arrivato, per ora, a cimentarsi nella manomissione politica e trasformistica della nobile parola, è Renzi. Nella battaglia congressuale interna al PD tenta di rilanciare il “riformismo” aggiungendovi la specificazione di “permanente”. Il che, visti i risultati ottenuti dal suo riformismo di governo, spinge i più a fare i debiti scongiuri.

Il suo “riformismo permanente” potrebbe riecheggiare vagamente una qualche influenza trotskista derivante dalla celebre “rivoluzione permanente” che fu la tesi che Trotskij, dirigente bolscevico, sostenne nella sua battaglia per il potere nella Russia sovietica contro Stalin, a sua volta armato della proposta del “socialismo in un solo paese”. Ma certe influenze sono da escludere perché è assai improbabile che Renzi conosca quella storia. Trotskij, com’è noto, perse quella battaglia. Gramsci, nei quaderni del carcere (Q. “Passato e presente”) lo definì  “il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta”. Viste le bellicose intenzioni dell’ex segretario del PD a continuare sulla stessa strada che ha portato il PD a molteplici offensive frontali e alle conseguenti sconfitte, come quelle conseguite nelle consultazioni amministrative e nel referendum del 4 dicembre, non sarebbe male che Renzi, oltre al lungo elenco di libri (Cavour, Giustino Fortunato, Salvemini, Antonio Labriola. Francesco De Sanctis Machiavelli e Giambattista Vico) consigliatogli in lettura recentemente da Eugenio Scalfari, desse un’occhiata anche  Gramsci. E pure a Turati.


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