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Miseria e nobiltà

Il 26 febbraio 2017 è stato un giorno storico. Eugenio Scalfari ha eletto Veltroni a padre nobile della sinistra. L’ha fatto in una lunga intervista di due pagine su “la Repubblica” simile per il tono e le pensose osservazioni a quella fatta a Papa Francesco nel novembre scorso.

Essere definito, in modo così acritico, padre nobile di una sinistra che non è stata mai talmente sbriciolata come oggi, lontana dal suo insediamento sociale, dalla sua storica sapienza politica e da un riconoscibile profilo etico, soprattutto dalle parti del PD, non dovrebbe esaltare l’oggetto di tanta venerazione.

Eugenio Scalfari

Il fatto è che il fondatore de “la Repubblica” in tanto marasma di sommovimenti sociali e politici domestici e mondiali, non sa bene come orientarsi e ultimamente prende spesso lucciole per lanterne. Gli è già capitato in passato, quando ancora non toccato da ingravescente aetate, vide agli inizi degli anni ’80 in De Mita il condottiero della DC in grado di rinnovarla.
Non è il caso di fare una disamina minuziosa dell’intervista veltroniana, fatta nel solito stile che siamo usi a conoscere: grandi svolazzi sui cambiamenti epocali, poche idee e le solite furbizie pro domo sua. Soprattutto nei riferimenti alla storia personale e della sinistra.

Prendiamo quindi fior da fiore.

Walter Veltroni

Veltroni dice che si dimise da segretario del PD per evitarne la divisione e salvarlo. Si sacrificò per la ditta appena nata. “Forse allora avrei dovuto fare altro, – dice – avrei dovuto convocare un congresso, ma avevo paura che si sfasciasse”. Insomma, confessa, il partito da lui fondato è apparso allergico fin dall’inizio ai Congressi, che poi sarebbero il solo modo, se fatti come si deve, per appianare divergenze di visione e di programma. Soprattutto per un partito nato da poco tempo che più che rinchiudersi nel loft avrebbe dovuto mettere solide radici nella società e non disseminarla di notabili e capibastone. Sarebbe stato anche un bel modo per tentare la mescolanza fra le diverse culture che, si diceva pomposamente, avevano contribuito a farlo nascere. Invece niente. Meglio gazebo e cacicchi.

La grande, e più che comprensibile, preoccupazione di Veltroni è la scissione, esiziale – dice – per la creazione di “un grande partito riformatore di massa, che poi è ciò contro cui ha sbattuto la storia della sinistra italiana”. Dimenticando che la sinistra italiana nella sua storia ha avuto stagioni molto più incisive e fruttifere nel produrre riforme attraverso grandi lotte e mobilitazioni (riformismo di popolo) pur non essendo raccolta in un unico partito. Quindi il problema è di contenuti, di insediamenti sociali, di capacità etico-politiche prima ancora che di contenitori più o meno grandi. Ma poi di che si preoccupa Veltroni se, come dice, la scissione in corso gli “sembra quella dell’atomo”?

Fra le divisioni a sinistra che Veltroni elenca dal ’94 in poi, per la verità con qualche approssimazione, c’è anche il caso della caduta del secondo governo Prodi addebitata a Bertinotti. Dimentica Mastella, Dini, Fisichella, Turigliatto e De Gregorio, ma, soprattutto, dimentica il suo “alle prossime elezioni andremo da soli” che innescò l’uscita di scena finale di quel governo.
L’intervista prosegue centrando il discorso sul fatto che sarebbero le divisioni ad aprire la strada alle destre populiste. Senza un minimo di analisi critica sul fatto che sono state proprio le politiche del PD subalterne al neoliberismo, soprattutto, negli ultimi tre anni di guida renziana, ad aver favorito la crescita di quelle destre e del “grillismo”, provocando gli smottamenti elettorali e la sonora sconfitta al referendum (mai nominata) di cui la scissione in corso è solo una tardiva conseguenza.

Poi c’è un altro riferimento storico: “Non si capirebbe la storia italiana se non si capisce che culture democratiche, liberali, progressiste, di sinistra, hanno fatto fatica a trovare la loro casa. Nel momento in cui sono riuscite a farlo per un periodo della storia è avvenuto con Berlinguer”. Detta così sembrerebbe che il PCI di Berlinguer fosse un agglomerato di quelle culture per cui il PD odierno ne sarebbe solo la lineare prosecuzione. Ma poi tutto si chiarisce, anzi s’ingarbuglia per fatto personale: “A me – dice il nostro – una volta accadde di dire che ero stato nel Pci ma non ero comunista. Volevo solo dire un’ovvietà: si poteva stare nel Pci senza accettare la dittatura del proletariato. Anche tu che non sei mai stato comunista hai votato per Berlinguer insieme a tanti altri, Calvino, Sciascia, Natalia Ginzburg; Pasolini non era comunista ideologicamente ma lo ricordo per il rapporto che ebbe con noi: guardava al Partito comunista come una grande riserva morale”. Ora è a tutti noto, almeno a quelli dell’epoca, che nel PCI non vigeva per niente la dottrina della “dittatura del proletariato”, – la cosa non era lasciata alla libera interpretazione dei singoli – e quindi se vi si aderiva non era per quell’assunto dismesso da Togliatti e non da Berlinguer. Il nesso, inscindibile si diceva allora, fra democrazia e socialismo era il fondamento teorico e pratico del PCI, una conquista togliattiana risalente a qualche decennio prima. Ma infatti, Veltroni, Togliatti manco lo nomina, preferisce stabilire a volo d’uccello un legame diretto fra Gramsci e Berlinguer come se di mezzo non ci fosse stato nulla. Non per caso quando divenne il primo segretario del PD Veltroni fece un manifesto fondativo del partito dove i numi tutelari, nazionali e internazionali, c’erano tutti, fra loro anche De Gasperi, mancava solo lui, il povero Togliatti che un pezzo di sinistra, e che sinistra!, insieme alla Repubblica e alla Costituzione le aveva costruite davvero e non a chiacchiere. A Veltroni, per giustificare la sua militanza comunista, serve, perciò, stravolgere la storia e sbianchettare nella foto di famiglia le immagini di coloro che non servono al raccontino edificante. Inoltre gli è utile accomunare chi era iscritto, militava e dirigeva nel PCI con animo liberale solo successivamente confessato, cioè lui, e chi si limitava a votarlo per considerazioni politiche di varia natura. Io come voi, sembra dire Walter, cari Scalfari, Calvino, Sciascia, Pasolini, N. Ginburg! “La grandezza storica di Berlinguer – prosegue il nostro – fu proprio quella di prendere un partito che si chiamava comunista, al quale lui non voleva recidere le radici. Aveva molto forte il senso delle radici ma la grandezza della sua esperienza fu quella di trasformarle e lo poté fare perché c’era Gramsci alle origini del Partito comunista”. Invece gli eredi di Berlinguer, tanto per seguirne l’esempio, si sono messi di buzzo buono e le radici le hanno quanto meno rinsecchite, rendendole sterili. E adesso pretendono di tornare a pontificare da padri nobili.

Alla fine l’ex giovane figicciotto, non comunista, ma kennedyano, da sempre riformista ma anche radicale nei valori, deve pur trovare un nume a cui riferirsi; lo trova nel bravo Vittorio Foa, antifascista integerrimo, ma che certo non può essere additato come uno che nella storia della sinistra non abbia partecipato a diverse scissioni e separazioni: Partito d’Azione, Psiup, Dp. Insomma non si fece mancare niente. Persona tuttavia generosa e rigorosa: “ci incitava sempre – dice Veltroni -, non aveva mai un atteggiamento distruttivo” salvo le scissioni a cui aveva partecipato, ma che non ne inficiano la figura di uomo della sinistra inquieta. “Io penso che la sinistra abbia bisogno di qualcuno che non stia dentro le baruffe”, prosegue Veltroni riferendosi evidentemente a se stesso, non a Foa.

Al termine della promozione nobiliare, Scalfari ribadisce: “Tu sei il padre nobile della sinistra e della democrazia italiana”. Della democrazia italiana, addirittura. Come se l’avesse fondata lui, mentre ha contribuito non poco a manometterla. Veltroni invece di rispondere: “Ma che stai a dì”, si schermisce, “Padre no, semmai potrei essere un cugino avveduto…”.

Di terzo grado.

 


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