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Iniziativa politica

Molti anni fa ebbi occasione di partecipare a una lezione sulla storia del PCI tenuta da Giorgio Amendola, uno dei dirigenti più noti di quel partito. Amendola ci raccontò quello che visse a Napoli nei giorni del referendum monarchia o repubblica e dell’elezione dell’Assemblea costituente.

All’epoca, lui, era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio presieduto da De Gasperi. Napoli aveva votato a stragrandissima maggioranza, l’80%, per la monarchia e nei giorni in cui il re Umberto non voleva riconoscere il risultato delle urne a favore della Repubblica, era andata crescendo in città l’agitazione del popolino monarchico. C’erano stati già dei morti. L’11 giugno essendosi sparsa la voce che Umberto veniva a Napoli per farne la base della sua riscossa antirepubblicana, un grande corteo di popolo si era formato per dirigersi verso la Federazione napoletana del PCI che aveva issato sul balcone insieme alla bandiera rossa anche il tricolore senza più lo stemma sabaudo, la vituperata “ranocchia”. Tra questi manifestanti e gli ausiliari della polizia, inviati dal ministro degli Interni il socialista Romita, tutti di fede repubblicana e antifascista, postisi a difesa della sede comunista, ci furono scontri sanguinosi. I monarchici lasciarono sul selciato nove morti. Amendola stava dentro la federazione e in qualche modo riuscì, valendosi della sua carica governativa, a romperne l’assedio. Lasciato l’incarico di sottosegretario, Amendola divenne segretario regionale del Pci di Campania, Basilicata e Molise.

Allora, nella gerarchia di quel partito, i segretari regionali erano un po’ come i marescialli di Napoleone. Anche se il capo dei comunisti italiani, Togliatti, non era per niente un Napoleone o, come si direbbe oggi, un uomo solo al comando, ma un suscitatore di gruppi dirigenti larghi che seppe amalgamare con le nuove leve giovanili uscite dalla Resistenza partigiana e dalla Guerra di Liberazione. La selezione dei quadri dirigenti a tutti i livelli, allora, era fondata sul merito, sulle capacità dei singoli dimostrate nelle lotte assai dure di quell’epoca storica. La leadership del segretario del PCI era fondata sull’autorevolezza intellettuale più che sull’imperio del comando, dentro un gruppo dirigente di personalità forti che tutto erano meno che degli yes men.

Un treno carico di bambini in partenza da Napoli e destinato a portare i bambini nelle famiglie toscane e liguri

Giorgio Amendola ci raccontò che, divenuto segretario regionale, il primo problema che si pose fu quello di come il partito napoletano poteva rientrare in contatto con il popolino dei “bassi”, quello che aveva assaltato la federazione di via Medina, quello con il quale era scorso il sangue e che tuttavia occorreva conquistare al “partito nuovo” se i comunisti volevano diventare una forza popolare e di massa, non racchiusa dentro le oasi operaie di Bagnoli e dell’Italsider. Andò a chiedere consiglio a Togliatti e quello gli rispose: “Ci vuole un’iniziativa politica”; suggerendogli di utilizzare il movimento messo in piedi dalle donne comuniste e dell’UDI (Unione donne italiane) di avviare i bambini delle zone più affamate del paese per portarli a soggiornare nelle case dei contadini e dei mezzadri dell’Emilia rossa e della Toscana. Amendola ci disse che superando non poche diffidenze e sospetti – probabilmente è da quell’iniziativa che nacque la menzogna messa in giro dalle forze reazionarie clericali dei comunisti che mangiavano i bambini – la cosa fece breccia nel muro di odio e di avversità del popolino napoletano. E i mitici funzionari comunisti, i “rivoluzionari di professione”, si trovarono a pulire, vestire e pesare torme di bambini che poi furono messi sui treni della solidarietà e della speranza. Per conquistare la maggioranza elettorale a Napoli, i comunisti dovettero lavorare duramente per altri trent’anni, ma quello fu il primo passo che consentì loro di riprendere un contatto con quel popolo che volevano rappresentare.

1946: famiglie di Voltana (Lugo di Romagna, Ravenna) con i bambini da loro ospitati

La cosa che allora mi colpì del racconto amendoliano fu la risposta che diede Togliatti: “Ci vuole un’iniziativa politica”. Nella storia dei comunisti l’iniziativa politica, come spiegò teoricamente e acutamente Emilio Sereni agli inizi degli anni ’70, era cosa diversa da una semplice azione propagandistica o organizzativa. L’iniziativa politica era quella proposta o quell’azione che doveva servire, partendo dalla situazione data delle forze in campo, a costringere tutti, amici e avversari, a misurarsi con essa. E se essa era giusta, al termine del suo svolgimento venivano a mutare i rapporti di forza complessivi in favore di chi l’iniziativa politica aveva messo in campo. Noi giovani del Pci eravamo abituati a considerare come modello insuperato di tale azione la famosa “svolta di Salerno” operata da Togliatti. Un’iniziativa, com’è noto, rivolta alle forze politiche che in pochi giorni mutò il panorama politico, sbloccando una situazione che si mutata in un vicolo cieco. C’è da osservare che i tempi di svolgimento di un’iniziativa politica possono essere diversi. Quella di Togliatti nell’aprile del ’44 fu rapida perché interveniva in una situazione stramatura per quella “svolta”. Invece, l’iniziativa politica della proposta di “compromesso storico” che mutò i rapporti di forza nel panorama politico degli anni ’70, ebbe bisogno di ben tre anni di svolgimento e di almeno tre passaggi elettorali significativi: referendum sul divorzio, elezioni regionali del ’75 e quelle politiche del ’76.

Modena: il camion che portava i bambini dalla stazione alle case delle famiglie ospitanti

La cosa che però, ripeto, mi colpì nella risposta di Togliatti ad Amendola è che l‘iniziativa politica non era solo qualcosa che riguardava proposte, per così dire, di schieramento politico, poteva essere anche svolta su questioni sociali. Comunque era sempre un elemento distintivo e diverso dalla propaganda. Ai comunisti napoletani, nel ’46, infatti, non mancavano certo gli strumenti della propaganda. Ma nel popolino monarchico quegli strumenti non aprivano nessun varco, forse erano anche controproducenti se, appunto, non venivano accompagnati da qualcosa di diverso e ben più concreto che venisse in qualche modo incontro ai loro bisogni sociali impellenti. E la salvezza dei bambini dalla miseria e dal degrado sociale che soffocava la Napoli dei “vasci” e degli “sciuscià” era certamente una priorità.
Perché ricordo tutto ciò? Ma perché oggi nel dibattito a sinistra, nella cacofonia che lo contraddistingue, su che cosa fare e come farlo, il concetto di “iniziativa politica”, soprattutto sul versante sociale, è assolutamente assente. I dati da cui partono i residuati della sinistra – e non parlo del PD che, nel suo renzismo imperante, parla tutt’altro linguaggio e fa tutt’altra politica – sono assolutamente catastrofici: sul piano politico la frammentazione è permanente; sul piano sociale le forze sono disarticolate, disperse, sfiduciate o addirittura preda delle sirene populiste di ogni ordine e grado. A dominare la discussione è la creazione di una lista elettorale attorno a cui danzano, polemizzando tra loro, 5-6 soggetti di varia entità, per lo più quasi insignificante. La loro percezione della “questione sociale” è piuttosto superficiale di tipo manzoniano nel senso datogli dalla critica di Gramsci ai “Promessi sposi”. Quando la richiamano, lo fanno per scopi essenzialmente descrittivi e propagandistici, che loro credono utili alla polemica sui giornali e nei talk show. Ma su quella medesima “questione sociale” non c’è uno straccio di iniziativa concreta e di massa. In questi giorni, poi, a tenere banco fra le forze sociali, anche quelle più povere e colpite dalla crisi, dalla crescente povertà e dalla disoccupazione giovanile, è la destra con l’agitazione sulla questione dell’immigrazione.

Partiamo dalla questione del lavoro. Nei mesi passati abbiamo avuto, da parte della Cgil, l’esempio di un’iniziativa politica: la promozione del referendum su voucher, art. 18 e appalti. La cosa ha subito smosso le acque dentro la maggioranza governativa e anche nel centrodestra, tanto da ricorrere all’imbroglio pur di evitare uno scontro che si sapeva essere perdente per lor signori. I nuovi voucher, poi, sono stati rivotati da una maggioranza di centrodestra, dal PD a FI alla Lega. Il referendum non si è fatto, ma chi vi si è opposto in modo così truffaldino pagherebbe un prezzo politico se ci fosse qualcuno a sinistra a farglielo pagare. E’ da notare, a proposito della differenza fra iniziativa politica e proposta programmatica, che due anni prima, sempre la Cgil, sulle questioni del lavoro aveva assunto due proposte: il piano per il lavoro, e la nuova carta dei diritti dei lavoratori. Nessuno, naturalmente, se le è filate, mentre l’iniziativa referendaria su tre cose precise, ancorché difensive e parziali se si vuole, ha avuto gli effetti che si è detto.

E’ noto a tutti che le questioni più acute presenti oggi nella vasta problematica del lavoro sono due: la disoccupazione giovanile e il precariato. Ebbene non sarebbe il caso che su di esse la sinistra frantumata concordasse un’iniziativa politico-sociale che le permettesse di uscire dalla propaganda della narrazione descrittiva per agganciare almeno l’interesse e l’attenzione di una parte del blocco sociale di riferimento? Che cosa pensano di dire ai tre milioni di disoccupati, in grandissima parte giovani, gli attuali esponenti di SI, Mdp, Possibile, Rifondazione comunista, Campo progressista, Movimento del Brancaccio? Che il lavoro arriverà con gli investimenti che faranno crescere il Pil? Certo sul piano macroeconomico la questione degli investimenti è centrale, come tutte le atre cose del resto: dalla politica fiscale a quella finanziaria, da quella industriale a quella ambientale ecc. Ma veramente si pensa che ciò sia una risposta bastevole per chi ha bisogno di un lavoro in tempi brevi? E allora bisognerebbe tirare fuori una proposta di piano straordinario per avviare al lavoro almeno un milione di giovani impiegandoli nella manutenzione del territorio, nella sua sistemazione idrogeologica, nella protezione, fruibilità e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, unendo le risorse e i beni migliori di questo nostro paese: ambiente e cultura.
L’altra questione acuta ed emergente è il precariato. Non è una questione oggettiva, un dato di natura immodificabile; è la condizione creata da politiche neoliberiste che hanno fatto passare la precarietà per flessibilità necessaria nel moderno processo produttivo rivoluzionato dalle nuove tecnologie. La precarietà dipende da 47 tipologie lavorative lievitate durante un quarto di secolo. Si faccia una proposta per ridurle a 5, massimo 6. Si mettano insieme queste due cose e se ne faccia un’iniziativa politico-sociale, con tanto di campagna propagandistica accompagnata da raccolta di firme nei territori e nei luoghi di lavoro a sostegno di due proposte di legge: chiare e semplici. Si contrasti su questo terreno dell’occupazione e del precariato l’influenza delle forze moderate e di destra, si costringa l’intero schieramento politico, a cominciare dal M5s e dal PD, a prendere posizione.

Questa iniziativa politico-sociale avrebbe, e non secondariamente, anche un altro effetto benefico per la sinistra frantumata: darebbe sostanza al suo processo di unità facendolo uscire dai tatticismi, dai personalismi, dai bisticci, dalle polemicucce e dalle punzecchiature fra leader più o meno attempati, senza autorità e senza consenso, impauriti dalla possibilità di sparire dal prossimo parlamento. Darebbe modo di fare un bagno ristoratore nelle periferie sociali a chi continua a pensare che basta distinguersi da Renzi per veder tornare all’antico ovile folle di elettori plaudenti.


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