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Paolo Borsellino: fu una strage di Stato?

A venti anni dall’attentato restano forti dubbi!

“Non c’è più speranza…” con queste parole, a Palermo il 19 luglio 1992, dopo la strage che uccideva il Giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, il capo del “pool antimafia” Antonino Caponnetto.
Dopo alcuni anni, in un intervista con Gianni Minà per un servizio televisivo, Caponnetto ricordava che “ Paolo aveva chiesto alla Questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre.
Ma la domanda era rimasta inevasa.
Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze.”

Significativo è il pensiero e la convinzione di Salvatore Borsellino, fratello del Giudice Paolo, descrive nel corso di una intervista Rai, che lascia intravedere una chiave di lettura delle vicende di venti anni fa, ancora aperte con tanti dubbi, tanti sospetti e molte contraddizioni, che oggi sono ancora di grande attualità, e alimentano la controversa questione sulla trattativa stato-mafia.
“ perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fere passare l’assassinio di Paolo e dei quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento.
Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa chiamiamola “trappola”.
Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato.
Vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti certi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra Repubblica.
Oggi questa nostra seconda Repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ’92.”

Le testimonianze di Antonino Caponnetto e di Salvatore Borsellino riassumono i dubbi, le perplessità, i tanti lati oscuri, i depistaggi su quanto accaduto in via D’Amelio, alle 16,58 del 19 luglio 1992, con l’esplosione dell’autobomba ( una Fiat 126 con 100 Kg di esplosivo a bordo) che denotò, al passaggio dell’auto di Paolo Borsellino, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta,Emanuela Loi ( prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio ), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muti, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Il nome di Paolo Borsellino era legato al collega ed amico Giovanni Falcone, infatti contribuirono nel biennio 1982/1983 a costituire, sotto la guida di Rocco Chinnici, il ”pool antimafia”: un gruppo scelto di magistrati e di funzionari della Polizia di Stato per combattere la malavita organizzata.
La missione del pool era anche quella di risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno “ per i fatti suoi”, senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell’interazione, una maggior efficacia con un’azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità.
Uno dei primi esempi concreti del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e l’appena “acquisto” Di Lello, che Chinnici aveva voluto e richiesto in squadra : Di Lello prendeva giornalmente a prestito la documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina successiva, dopo averla studiata come fossero “ quasi delle dispense sulla lotta alla mafia”.
Nel pool andò formandosi una “ gerarchia di fatto”, fondata sulle qualità personali di Falcone e Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità, di “ grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro.”

Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l’esplosione di un’autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo, da Firenze, Antonino Caponnetto.
Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia.
Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta, catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, inizio a collaborare con la giustizia.
Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino allora si sapeva ben poco.
Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni uno dall’altro, il commissario Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà.
Falcone e Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria dell’Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l’istruttoria per il cosiddetto “maxiprocesso”, che mandò alla sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l’Amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso.

In una intervista rilasciata due mesi prima di essere ucciso Paolo Borsellino raccontò l’evoluzione della mafia : “All’inizio degli settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa, nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole nel traffico di stupefacenti, rappresentava un monopolio e aveva la possibilità di gestire una massa enorme di capitali.
Cercò lo sbocco di queste risorse illecite che in parte venivano esportati o depositati all’estero, cosi si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente si pose il problema di effettuare investimenti.
Iniziò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso.”
In questa sua ultima intervista Paolo Borsellino parlò anche dei legami tra mafia e l’ambiente industriale milanese e del Nord Italia, che in questo periodo sono tornati di grande attualità e le indagini sono ancora aperte su molti versanti.

A venti anni della strage di via D’Amelio, la memoria del magistrato palermitano viene ricordata al teatro, al cinema, in televisione e nella stampa, oltre che nella rete, con racconti, testimonianze, iniziative per i giovani e con manifestazioni istituzionali e popolari.
La Medaglia d’oro al valor civile, conferita alla memoria di Borsellino riporta questa motivazione :
“Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, esercitava la propria missione con profondo impegno e grande coraggio, dedicando ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la proterva sfida lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Nonostante le continue e gravi minacce, proseguiva con zelo ed eroica determinazione il suo duro lavoro di investigatore, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio dei più alti ideali di giustizia e delle Istituzioni.”

In questi giorni, Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, funzionario della Polizia di Stato, pone una domanda :” Vorremmo capire chi e perché ha organizzato il depistaggio ? Nella ricerca della verità è necessario che si vada fino in fondo, e noi saremo vigili e attenti.”
Quindi gli interrogativi sono ancora molti, perché pesa, per far luce, la trattativa fra parti deviate dello Stato e mafia, la lotta alle diverse forme di criminalità organizzata che rappresentano un pericolo costante per la legalità, per l’economia, per la politica, e più in generale per tutta la società del nostro paese.
Borsellino e Falcone (ucciso 57 giorni prima del suo amico e collega a Capaci) hanno lasciato un grande esempio alla società e alle Istituzioni, per questo vanno ricordati e onorati.


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