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La crisi edilizia in Italia e a Roma

Tra cemento e affari, vicende di un settore dove al posto del mercato c’è solo speculazione. Un articolo di Vittorio Emiliani su L’Unità del 11 dicembre 2008

Dal sito eddyburg.it riprendiamo un articolo di Vittorio Emiliani sulla crisi edilizia, pubblicato su L’Unità dell’11 dicembre 2008

"Fino a qualche mese fa, chi gettava l’ombra di una critica sul «boom» edilizio al galoppo dal 2000, veniva trattato da corvaccio del malaugurio. Oggi in tanti si strappano i capelli reclamando, al solito, «aiuti» dal governo nazionale e da quelli regionali per salvare un comparto che rappresenta – ed è vero – il 10,5 per cento del Pil. Eppure la crisi era prevedibile man mano che procedeva la «grande abbuffata» di cemento in tutto il Belpaese, nelle aree metropolitane come nelle zone interne più intatte. Tre dati di questa mega-contraddizione:

1) l’indice dell’industria delle costruzioni è balzato da 100 a 135 in soli sette anni, si è badato esclusivamente a speculare sulle prime e sulle seconde, o terze, abitazioni, e quindi incendiando il caro-case tenuto su dai mutui «facili» delle banche;

2) nello stesso periodo la popolazione, in Italia, è cresciuta relativamente poco (+ 3 per cento);

3) quel poco però risulta costituito, per lo più, da giovani coppie, da immigrati, da coppie di extra-comunitari oppure miste, che reclamano, case e/o affitti a prezzo contenuto o addirittura basso, senza trovare nulla, senza che ci sia stata una qualche politica in tal senso (il piano casa del governo Prodi, per 550 milioni, è di un paio di anni fa).

Esito scontato: alla prima crisi internazionale, dopo gli Stati Uniti, dopo la Spagna (che aveva più «febbre» di noi), è la volta dell’Italia a bloccarsi e lo fa frenando di colpo. I titoli del gigante Pirelli Real Estate – protagonista nelle vendite del patrimonio degli enti previdenziali e in altro ancora – sono precipitati, da aprile ad oggi, da 60 a 3,68 euro (quotazione di mercoledì 3). Non sta molto meglio la Ipi di Danilo Coppola. La Gabetti va chiudendo filiali su filiali e prevede 500 licenziamenti. Il mercato, fortemente speculativo, da solo ha fatto flop, com’era prevedibile.

I modi di reagire sono i più diversi. La Spagna – che sta peggio di noi e che ci aveva affiancato in testa alla classifica dei grandi produttori di cemento (altri posti a rischio, dopo aver saccheggiato, con le cave, intere montagne e colline) – ha provato a darsi una legge urbanistica più severa. In Italia, al contrario, si reclamano norme urbanistiche ancora più permissive, quelle del modello-Milano dove ormai la pianificazione urbanistica si basa sulla contrattazione diretta fra il Comune e i grandi detentori di aree. Non basta, il sindaco Letizia Moratti ha chiesto il raddoppio delle cubature edificabili entro i confini ristretti del suo Comune (appena 17.000 ettari) per riportarvi dentro, udite udite, i 700.000 cittadini che se ne sono andati nell’ultimo trentennio. «Una cosa campata in aria», ha dichiarato più di un urbanista serio.

«Non si vende quasi più niente», afferma da Roma il presidente di Federlazio, Antonio D’Onofrio. In un semestre le compravendite di case sono calate, in Italia, del 14 per cento e le previsioni per il 2009 sono ancor più negative. Con tutto ciò, l’Expo di Milano sembra venire largamente giocata sul terreno di nuovi grattacieli e grattacielini. Per chi? Non si sa. Nei mesi scorsi, a Vigevano c’erano mille cantieri aperti per ospitare altri milanesi in fuga dalla metropoli. Lo stesso a Pavia e a Voghera. Ma la Regione Lombardia dove sta? Cosa fa? Cosa programma? Abolisce gli standard urbanistici ed è propensa a lasciar costruire nel Parco Sud di Milano.

Sappiamo cosa programma il governo Berlusconi. Secondo il «Sole 24 Ore» (29 novembre), «il Piano casa procede con meno fondi del previsto (l’ultima cifra è 150 milioni di euro), mentre all’estero l’ultimo annuncio viene dal governo inglese, disposto a varare un piano da 1 miliardo di sterline»(cioè circa 850 milioni di euro, una bella differenza). A Roma i costruttori, che fin qui hanno tirato su una marea di nuovi quartieri (fra i più mediocri, da ogni punto di vista, dell’ultimo mezzo secolo) guardando al solo mercato senza preoccuparsi, incoraggiati dalle banche, di una domanda di alloggi a costi e a canoni medio-bassi, minacciano crisi nera e licenziamenti per un terzo dei 150.000 addetti. Al solito.

In Italia si sono dati, nell’ultimo trentennio (qualunque fosse il governo in carica), questi tre fenomeni concomitanti:

1) è proseguita la corsa senza freni alla proprietà dell’alloggio (siamo all’80 per cento ormai) col risultato di “impiccare” per decenni, alle rate dei mutui milioni di giovani e di giovani adulti;

2) si è grandemente rattrappita l’area dell’affitto per il quale figuriamo fra gli ultimi nell’Europa avanzata col 19 per cento, contro il 31 della Gran Bretagna, il 38 della Francia, su su, fino al 55 per cento della Germania;

3) si è abbandonata, di fatto, quella politica per la casa che aveva portato l’edilizia economica e sociale verso la media europea del 20-25 per cento e che ora ci vede ultimi con un investimento pubblico risibile (1 per cento). Del resto, i promotori di nuove iniziative immobiliari sono diventati principalmente gli stessi costruttori, sono loro a fare il bello e il cattivo tempo. Mentre una volta, al primo posto, c’erano i privati, le cooperative contavano e il settore pubblico era tutt’altro che irrilevante.

La progressiva contrazione dell’affitto (o dell’affitto conveniente, una volta sepolto l’equo canone) in una società divenuta, per contro, più “mobile” provoca tragedie sociali di massa. Secondo il Sunia, la causa principale degli sfratti non è più la fine della locazione, bensì la morosità cronica di inquilini che non ce la fanno più a pagare: venticinque anni fa essa costituiva meno del 13 per cento delle cause di sfratto, oggi sfiora il 78 per cento. Impressionante.

Discorso analogo per l’edilizia economica e popolare, una volta utilissimo volano in tempi di crisi. Lasciata quasi a secco, essa costruisce ancora qualcosa soltanto col ricavato dalle vendite di alloggi di proprietà pubblica. Che sono meno di 800.000, mentre ne occorrerebbero più del doppio. Certo, c’è chi in passato ha concorso a dissestare i bilanci dei vari Istituti Case Popolari, non pagando i canoni, pur bassi o bassissimi. Per non parlare del flagello delle occupazioni abusive. Ma una politica moderna di “social housing” era possibile, anzi indispensabile. Secondo Nomisma, la domanda potenziale di questi alloggi a fitto convenzionato, cioè per giovani coppie, immigrati, universitari fuorisede, pendolari forzosi, è molto elevata. Su 3 milioni e mezzo di immigrati regolari, più di 1 milione abita in locali precari a prezzi da levar la pelle. Seicentomila persone sarebbero a caccia di un alloggio a fitto sopportabile.

Infine: abbiamo un patrimonio abitativo enorme che già nel 2005 superava i 130 milioni di stanze. Un 20-25 per cento sono seconde e terze case. Sottratte le quali, restano pur sempre circa 94 milioni di stanze per neppure 60 milioni di residenti. Dunque c’è una vastissimo patrimonio di alloggi vuoti, sfitti, precariamente occupati, da recuperare, risanare, restaurare. A cominciare dai centri storici dove lo spopolamento ha raggiunto vette inimmaginabili. Nella metropoli, Roma, dove se ne è andato quasi il 78 per cento degli abitanti del dopoguerra, come nella piccola città, Urbino, dove è uscito dalle mura oltre l’85 per cento. Per non parlare di Taranto o di altre città antiche del Sud ormai desertificate.

Ma i costruttori dicono no ad investimenti massicci nel recupero di appartamenti, di interi palazzi e quartieri semiabbandonati. “Si risparmia a costruirli ex novo su aree pubbliche”, spiega il neopresidente dei costruttori romani, Eugenio Batelli. Difatti a Roma – dove ci si è accorti, improvvisamente, che mancano 30-40.000 alloggi per immigrati e giovani coppie – ci si prepara ad una nuova divorante abbuffata di ettari nell’intatto Agro Romano, anche là dove ci sono vincoli. Un altro “sacco”, l’ennesimo, forse il peggiore. Mentre, per contro, il centro storico, nuovamente invaso da auto e Suv, senza vigili urbani (chi li ha più visti?), da una costellazione insensata di pizzerie, piazze-a-taglio, bar, gelaterie, pub, abusivi o effimeri, spesso frutto di riciclaggio, si svuota di residenti e diventa città degli uffici e dello shopping di giorno e “divertimentificio” di notte, con problemi angosciosi di spaccio e di criminalità. Mentre i giovani e gli immigrati vanno fuori, il più possibile. Magari senza mezzi pubblici. Così si comprano l’auto “impiccandosi” ad altri debiti. "


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Commenti

  1. flor  

    CRISI IMMOBILIARE 2009 INVESTIRE IN CAMPAGNA? UN PESSIMO AFFARE A mio avviso il mercato, ora morto, può riprendersi solo se i prezzi calano ulteriormente. Chi mette in vendita ai prezzi assurdi di 2 o 3 anni fa , IN REALTà NON VUOLE VENDERE, non ha bisogno di vendere: ASPETTA IL POLLO, IL FESSO DA SPENNARE. Una casa è vendibile solo se il venditore richiede un PREZZO DI RIVENDIBILITà, ovvero se a quel prezzo, al prezzo al quale compra, il compratore riuscirà a sua volta a rivendere l’immobile. Mi sembra che i casi più eclatanti di IRRIVENDIBILITà presenti sul mercato siano quelli delle case di campagna, cascine, casolari, coloniche, rustici ecc. OGGI ASSOLUTAMENTE INVENDIBILI, specie se restaurate. I prezzi delle country house REALMENTE IN VENDITA stanno crollando verticalmente. Posto al riguardo un articolo, per intero perché l’edizione di settembre del mensile che lo ha pubblicato non è più on line, che ben illustra la situazione delle country house dell’italia centrale e meridionale. “ Country house: Inglesi in fuga. Gli Italiani sono stufi del caos urbano, delle città riempitesi di immigrati clandestini, di spacciatori, prostitute, locali notturni della criminalità, di furti, scippi, stupri, estorsioni, ovvero di quell’inferno, quell’incubo in cui sono state colpevolmente trasformate le nostre aree urbane. Il rapido deterioramento della qualità della vita nelle città ha spinto negli anni passati molte famiglie a esplorare le campagne in cerca di oasi di tranquillità e sicurezza. Ma la speranza di trovare una migliore vivibilità nelle campagne si è rivelata illusoria: soprattutto nelle zone rurali prossime a strade provinciali, a discariche e tralicci o a zone industriali il degrado è simile se non superiore a quello cittadino, con una popolazione locale composta prevalentemente da clandestini magrebini e da Rumeni, e da qualche agricoltore in pensione, troppo vecchio per cambiar casa e scapparsene via. Tuttavia se oggi ci si allontana dalle provinciali e ci si addentra nelle campagne e nei piccoli borghi più sperduti si ha una duplice sorpresa: i casolari più isolati e inaccessibili sono stati comprati nello scorso decennio da Inglesi, e, guarda caso, ora questi Inglesi stanno vendendo in massa. La moda che negli anni scorsi sembrava irrefrenabile, per cui i sudditi di Sua Maestà Britannica correvano a comprare a prezzi assurdi le più scassate e scatafossate bicocche per restaurarle e corredarle di piscina, è finita. Ed è finita decisamente male per gli Inglesi, che ora devono rivendere case scomodissime e costose, case che nessun Italiano vuole, almeno a quei prezzi. La trascorsa decennale epopea delle case di campagna comprate dagli Inglesi è tutta da ridere, roba da commedia all’italiana. Beandosi della sterlina allora forte, i Britanni compravano quasi a occhi chiusi cascine, rustici, i cosiddetti casolari tipici umbri, marchigiani, pugliesi. Tali umide, maleodoranti e malferme catapecchie erano state abbandonate negli anni ’60 e ’70 dai nostri agricoltori i quali, godendo di tutti i benefici e i privilegi creditizi e fiscali loro concessi a piene mani dalla Bonomiana in cambio del consenso elettorale alla Democrazia Cristiana, si erano fabbricati moderni edifici, autentiche ville e palazzi dotati di ogni confort. Questi contadini, così beneficiati dal (nostro) pubblico denaro, non immaginavano certo di essere colpiti da un’altra imprevedibile fortuna: la moda inglese dell’italian dream, il sogno italiano della country house nel Bel Paese. L’Italiano è furbo, ha l’occhio lungo, il contadino in particolare, scarpe grosse e cervello fino, con alle spalle una secolare tradizione di ruberie al padrone, agli antichi proprietari terrieri (quelli, per intenderci, che avevano appoggiato il fascismo, poi nel dopoguerra sterminati dalla DC a favore dei contadini stessi). Ebbene, il furbo vergaro italico, magari col figlio geometra o mediatore, ha colto al volo e ben sfruttato l’ingenua moda britannica: capanne e ruderi di tufo o di altro materiale scadente, in luoghi scomodissimi, lontani da ogni tipo di servizi, che prima degli Inglesi nessuno voleva nemmeno in regalo, venduti per centinaia di milioni di lire a eccitati (“excited”!) sudditi britannici. Poi le famiglie contadine festeggiavano l’insperato affare crapulando in oceanici banchetti ai quali venivano invitati parenti e amici, e, ovviamente, i “chicken” britannici ben spennati. Ma l’affare non finiva lì: il neoacquistato rudere doveva essere ristrutturato. Tutti conosciamo lo scarso fairplay italico quando si tratta di differenziare i prezzi per turisti stranieri dai prezzi per Italiani: nelle campagne tale differenziazione è stata elevata all’ennesima potenza. All’ingenuo acquirente, reso ancor più fidente da abbondanti “lunch” e da tanta falsa accoglienza iniziale, veniva consigliato per i lavori il cugino geometra, il cognato muratore, il genero idraulico, la nipote titolare dell’agenzia per le pratiche burocratiche, l’amico rivenditore di materiali per l’edilizia. Case del valore finale reale di 100.000 – 200.000 euro venivano a costare 400.000, 500.000, 600.000 euro. Una pacchia, una vera manna per i nostri campagnoli che, giustamente, ne approfittavano, in base al principio: “Finché si trovano i polli…”. Poi arrivò l’anno domini 2008, l’anno dei subprime, del crollo del mercato immobiliare negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dei fallimenti a raffica di banche e assicurazioni inglesi, del governo britannico che per turare le falle nel sistema creditizio si svenava e stampava sterline come se fossero volantini pubblicitari. E la sterlina contro l’euro crollava, crollava, sempre più in basso, sempre più in fondo: 1.7, 1.4, 1.3, 1.1 … E gli Inglesi residenti nelle bicocche con piscina restaurate a caro prezzo, che avevano redditi in sterline, convertivano quelle sterline in sempre meno euro, e cominciavano a chiedersi: “Ma non ci converrà ritornarcene in Gran Bretagna (“go back home”), visto che qui in Italia con le nostre sterline svalutate non ci compriamo più nulla?”. Oltretutto i Britanni si erano nel frattempo stufati di coltivare stentate erbette e verdurine per le talpe, di scorazzare inutilmente coi loro fuoristrada con targa gialla e guida a destra per le nostre campagne, belle sì, ma prive di servizi, di vita sociale tra gente sopportabile, di comodità, così desolate durante le lunghe invernate, e, in fin dei conti, noiose da inedia. Si erano stancati di attendere l’ispirazione artistica raccogliendo in continuazione col retino insetti, formiche, vermi di mosche e altra campagnola sporcizia galleggiante nell’acqua delle loro piscine. Si erano accorti che l’Italia, la vagheggiata Italia, l’italian dream, più che un sogno era un incubo di clandestini, malavita, tasse, burocrazia, servizi pubblici scadentissimi, rapine e stupri in villa… E allora hanno pensato: “Ma se vendiamo questo nostro casolare tipico toscano umbro marchigiano che abbiamo pagato centinaia di migliaia di euro, e convertiamo queste centinaia di migliaia di euro in sterline, poi con tutte queste sterline in Inghilterra torniamo a vivere da signori”. Ed ecco allora gli Inglesi affollare le nostre agenzie immobiliari, ecco i mediatori riempire bacheche, siti internet e giornaletti immobiliari di casolari tipici ristrutturati con piscina in vendita… ma, ma…. Ma nessuno compra. Nessun Italiano con famiglia, con figli e/o anziani, può andare a vivere in quelle lande isolate e sperdute, vicino a qualche spopolato paesetto di vecchi, senza servizi, senza scuole, senza ospedali. Nessun Italiano è disposto poi, anche se libero dalle necessità di una famiglia, a pagare un immobile tre, quattro, cinque volte il suo reale valore. Anche perché l’acquirente italiano, sempre con l’occhio lungo, pensa: “Ma un domani, se dovrò rivendermi questa bicocca in campagna, quale fesso me la comprerà?”. Senza contare infine che sul valore delle aree rurali incombe il 2013, l’anno in cui, in ossequio ad accordi liberisti di commercio mondiale già siglati, tesi a favorire le esportazioni agricole di paesi emergenti, l’Europa toglierà agli agricoltori quei sussidi che finora ne avevano permesso la sopravvivenza, con conseguente futuro deprezzamento e cambio di destinazione (a pascolo) dei terreni. Devo dire che il riconosciuto senso pratico, il tradizionale empirismo britannico, sta inducendo i venditori inglesi a una corsa al ribasso dei prezzi, spesso in concorrenza tra connazionali. In questo i Britannici si stanno dimostrando più realisti e lungimiranti di quei vergari nostrani ai quali il casolare tipico, il rustico, è rimasto ancora invenduto, e che continuano a chiedere prezzi superiori ai 100.000 euro, non comprendendo che, finita la moda degli Inglesi, il mero valore di cubatura delle loro catapecchie è di 10.000 – 20.000 euro al massimo. E per questi 10.000 – 20.000 euro devono ringraziare certe demenziali e antilibertarie normative statali e regionali che impediscono tirannicamente al cittadino la libertà primaria di costruire sulla sua proprietà, sulla sua terra, o lo taglieggiano imponendogli oneri di fantomatiche urbanizzazioni e altre tasse assurde. In mancanza di tali leggi vessatorie e predatorie, in un regime di libero mercato, il valore delle dette bicocche sarebbe negativo: il costo della loro demolizione. Rimangono pur tuttavia come acquirenti dei casolari tipici i Magrebini e i Rumeni, a prezzi ovviamente magrebini e rumeni. “ (Articolo di Filippo Matteucci su ItaliaReale di Settembre) I miei consigli per gli acquisti di case di abitazione sono i seguenti, pochi ma sicuri: comprate solo a un PREZZO DI RIVENDIBILITA’, cioè assicuratevi che vi sia la concreta possibilità di rivendere la casa almeno allo stesso prezzo che state pagando, evitate gli acquisti di moda (dal finto borgo marinaro al romantico-bucolico-agreste): andate invece sul sicuramente rivendibile, evitate come la peste le case di campagna, cascine, casolari, coloniche, rustici ecc. OGGI ASSOLUTAMENTE INVENDIBILI, specie se restaurate, comprate invece al centro, o nelle zone di immediata o prossima espansione urbanistica, comprate nelle città capoluogo di provincia o nelle cittadine turistico-balneari più richieste, comprate case costruite negli anni ’60 e ’70: hanno una qualità costruttiva migliore e stanze più grandi rispetto alle nuove costruzioni pur costando un po’ meno, non hanno bisogno di grandi ristrutturazioni e sono più vivibili di certi loculi-alveari a caro prezzo, guardate allo spazio a disposizione: più ce n’è e meglio è, corti, giardini, parcheggi, garage (meglio se doppi), e non alle finiture o alla jacuzzi o alla robotica&domotica (dà solo problemi), riscaldamento rigorosamente autonomo, se avete sufficiente capitale, compratevi case singole con corte e giardino, vivrete meglio…. altrimenti studiatevi il regolamento di condominio: più divieti (di comportamenti da cafoni) ci sono, più il condominio e l’immobile sono di sicura qualità, fate attenzione a tralicci, ripetitori radiotelevisivi e di telefonia cellulare, piste di motocross, strade e linee ferroviarie trafficate: se sono presenti vicino all’immobile difficilmente lo rivenderete senza rimetterci, massima attenzione alla stabilità dell’immobile e del terreno su cui è edificato: i soldi per una perizia privata (sicuramente più affidabile di quelle pubbliche…) del vostro geologo di fiducia non saranno mai spesi meglio.

  2. Solidea BIanchini  

    Ottimo articolo! Da leggere, rileggere e soprattutto far leggere a più persone possibile! Grazie

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